di Fabrizio Casari Sono lontani i tempi nei quali alcuni addirittura prevedevano un possibile affiancamento (parziale e non a livelli di comando, certo) della Russia nel dispositivo Nato. Perché è evidente come la crisi tra Georgia e Russia, che rischia ora di allargarsi all’intero Caucaso, sia stata originata da un elemento di fondo della dottrina Bush: l’intenzione - praticata e mai dichiarata ufficialmente - di mettere Mosca all’angolo, per impedirgli di riacquistare ruolo politico e militare che, uniti ad una forza economica dovuta soprattutto al peso nel mercato energetico, ne fanno un temibile competitor sul piano della governance globale. I passaggi concreti attraverso i quali la Casa Bianca ha operato per contenere il crescente peso russo si sono snodati su tre principali direttrici: quella degli organismi internazionali, dove l’ingresso della Russia nel WTO continua ad essere impedito; quello diplomatico, con l’esclusione di Mosca dai processi decisionali sulle crisi politiche e militari nello scacchiere internazionale; quello politico-militare, con l’irruzione di forza nella sfera d’influenza russa, dai Balcani al Caucaso, all’Asia minore.
Se sui primi aspetti Mosca ha avuto modo di fare “spallucce”, diversa e di tono muscolare è invece stata - e non poteva essere altrimenti - la risposta alle minacce dirette alla destabilizzazione politica dei propri confini e della propria, conseguente, sicurezza militare. Gli Stati Uniti hanno ritenuto di poter impunemente scatenare conflitti tramite il sostegno diretto – economico, mediatico e militare - alle mire separatiste ed antirusse di alcuni dei leader politici dei Paesi che circondano Mosca. In particolare, l’Ucraina e la Georgia sono state il terreno privilegiato dell’iniziativa statunitense, che con dollari e armi ha tentato di dare una pesante spallata al ruolo di leadership russa nel territorio dell’ex Unione Sovietica. L’attacco georgiano all’Ossezia del sud è stato solo l’ultimo e più grave gesto figlio di questa politica di destabilizzazione dei confini russi. Le truppe georgiane hanno massacrato e distrutto con l’appoggio di Washington, che si è poi rivelata impotente a fermare i tank e i caccia di Mosca che hanno annientato le truppe di Tbilisi, riducendo a commedia drammatica le fanfaronate del presidente Saakashvili.
La reazione di Mosca, probabilmente diversa, più rapida e più dura di quella che le teste neocon americane si attendevano, ha trovato la sua giustificazione proprio nel precedente del Kosovo, che aveva rappresentato la pretesa base giuridica per l’intervento occidentale ai danni dell’integrità territoriale della Serbia. Il Kosovo, infatti, è stato il teatro dell’affermazione giuridica della “legalità etnica”, del diritto cioè al controllo di un territorio sulla base dell’identità etnico-religiosa della maggioranza della popolazione che lo abita. In Kosovo la guerra ha visto cambiare la sua denominazione in “intervento umanitario” e la conquista dei territori in “attività di polizia internazionale”. In fondo, l’applicazione coerente di quanto aveva già mostrato al mondo la sporca guerra di dissoluzione della ex-Jugoslavia, ultimo esempio civile d’integrazione dei popoli nel cuore dell’Europa.
Dunque, con il precedente giuridico kosovaro, in nessun modo la cosiddetta “comunità internazionale” poteva coerentemente opporsi all’intervento a difesa della maggioranza della popolazione ossetina nella sua spinta separatista da Tbilisi. Certo, c’è da dire che la propaganda, come in ogni guerra che si rispetti, soprattutto se ingiustificata ed ingiustificabile, fa la sua parte; e così, se l’intervento a sostegno dei kosovari è per definizione “umanitario”, quello a difesa degli ossetini del sud diventa paragonabile alla Budapest del 1956 o alla Praga del 1968, peraltro sideralmente diverse tra loro.
Ma la posta in gioco per Mosca è ancora più alta. Non si tratta solo di dover garantire comunque la difesa della “grande madre patria russa” alle popolazioni dell’ex Unione Sovietica che la richiedono; con l’intervento in Georgia, le minacce di aiuto all’Abkhazia e il mostrare i muscoli in Crimea, il Cremlino spiega a chiare lettere che non resterà con le mani in mano a vedere i suoi confini dilaniati da micro e macro conflitti e, soprattutto, che il progetto statunitense di scudo spaziale antirusso, da installarsi in Polonia, Ucraina e Repubblica Ceka, è un aperto, inequivocabile, atto di guerra alla Russia.
Si può pensare tutto il male possibile di Vladimir Putin e del suo regime, ma davvero lo si può confondere con quell’avanzo di osteria di Boris Eltsin? E quindi c’era bisogno di sfidare Mosca ai suoi confini? Davvero si riteneva e si ritiene che la Russia possa auto esiliarsi nel ruolo di pompa di benzina e di gas dell’Europa da un lato e complice obbediente dei disastri statunitensi in Asia e Medio Oriente dall’altro? E davvero le ambizioni imperiali statunitensi devono vedere l’Europa come scenario dove giocare il war games più pericoloso di questo inizio secolo?
Del resto, anche qui non mancano i precedenti storici che giustificano la reazione russa. Proprio la crisi dei missili a Cuba tra Mosca e Washington nel 1962, conclusasi con un accordo tra Kennedy e Krusciov, spiegava come il rispetto assoluto degli accordi di Yalta era imprescindibile per il mantenimento della pace mondiale. Perché è la dissuasione che deriva dall’equilibrio, il non poter colpire perché consci di firmare nello stesso momento la propria autodistruzione, ciò che impedisce alle ambizioni delle superpotenze nucleari di dare il via all’ultima guerra per il genere umano.
Il fatto che l’Urss sia scomparsa e che gli Usa siano rimasti la potenza che gestisce il dominio unipolare del pianeta, non cancella però la necessità di un equilibrio militare tra superpotenze dotate di arsenale atomico, anzi l’aumenta proprio per l’assenza dell’equilibrio politico. Proprio quello che oggi viene messo in discussione con lo “scudo difensivo” che la Nato intende imporre ai confini russi, pensando erroneamente che Mosca sia disposta a trasformarsi in una cittadella assediata dell’impero occidentale. Nessun Paese dotato di armi nucleari, a nessuna latitudine, accetta di vivere con dei missili nemici puntati sulle tempie. O si vuole, in un idiota risiko atomico, testare la risposta russa in un teatro nucleare tattico?
E l’Europa? Tanto per cambiare, non si avverte in maniera netta la presenza dell’Unione Europea, anche se la mediazione di Sarkozy ha evitato che la crisi nel Caucaso divenisse ancor più profonda. Ma sullo “scudo difensivo” la Ue tace, stretta tra la servitù politica verso Washington e gli ingressi scaglionati dei Paesi appartenenti all’ex Patto di Varsavia. Una volta di più, la Ue tradisce fino in fondo quel progetto di autonomia politica, economica e militare cui i padri dell’unità europea s’ispiravano e conferma con chiarezza, per l’ennesima volta, la propria impotenza sul terreno geopolitico internazionale.
E i governi polacchi, ceki e ucraini, che vendono la loro sovranità e mettono all’incanto la loro sicurezza cosa avranno in cambio? Qualche manciata di miliardi di Euro per le loro elites politiche ed economiche, mentre i rispettivi popoli saranno trasformati in un bersaglio. Le loro truppe invece, una volta inserite nel dispositivo Nato, serviranno a combattere nelle aree di crisi che Washington continuerà ad alimentare per la ripresa della sua economia, ancora basata sullo sviluppo del suo complesso militar-industriale e sulla necessità di controllare militarmente e politicamente le fonti energetiche e le principali rotte aeree e marittime del pianeta. Le truppe dell’Est eviteranno che a morire vadano i “bravi ragazzi” yankee e diventeranno la nuova carne da macello destinata ad essere sacrificata per fortificare ed ampliare i confini planetari dell’impero.
Non c’è nessun pericolo nucleare che proviene da Iran e Corea del Nord, come raccontano gli Usa per sostenere la necessità dello scudo nel cuore dell’Europa dell’Est. Come spiega il professore polacco Roman Kuzniar, uno dei massimi esperti di relazioni internazionali, “nessun Paese vuole sfidare la potenza egemone. E’ un errore chiamare difensivo lo scudo, che è offensivo. Ma questo scudo - prosegue - è contro la nostra sovranità, contro la nostra sicurezza, contro i nostri interessi e contro i rapporti di buon vicinato con i paesi confinanti”. E che lo scudo rappresenti tutto questo, ma soprattutto che trasformerà Varsavia in un bersaglio, è confermato dalle parole del Vice Capo di Stato Maggiore russo, Anatolj Nogovitsin, che afferma: “La Polonia, ospitando lo scudo spaziale, si mette da sola nel mirino della risposta russa”.
Il “Sì” polacco, ceko e ucraino all’installazione di un sistema missilistico offensivo ai confini della Russia, rischia quindi di diventare l’elemento decisivo per una ulteriore escalation armata che potrebbe portare a dita americane sui bottoni nucleari tra il cuore dell’Europa e gli Urali. Il mondo si trova dunque una volta di più sull’orlo di una crisi dagli esiti imprevedibili e, comunque, con una quota massiccia delle sue riserve energetiche collocata in un teatro possibile di guerra. Un modo come un altro per alzare ulteriormente il costo di gas e petrolio, una strada certa per l’aggravamento della crisi economica internazionale e un bottino ricco per i petrolieri, i cui rappresentanti, ubriachi di dionisiache ambizioni e di ricchezze immense accumulate grazie alle guerre scatenate per i loro interessi, siedono ancora, impuniti, alla Casa Bianca.
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